Inserita in Un caffè con... il 30/01/2018
da Direttore
Diamo un volto nuovo alla Città e alla Politica. Il cambiamento parte dall’individuo
Il cuore dell’uomo e la sua sensibilità stanno divenendo come la pietra o come l’acqua che scivola sulla melma senza corroderla anzi corroborandola. Calati iuncu chi passa la china recita un antico proverbio siciliano, ancora attuale.
Nonostante ciò, parlando con qualsiasi persona, il discorso verte sempre sui soliti argomenti: malessere, lavoro, tasse, politica, criminalità… perché “la lingua batte, dove il dente duole”, come si dice, ma le cose non cambiano: aspettiamo sempre che a cambiare sia qualcosa o qualcuno al di fuori di noi e che altri si assumano la responsabilità di modificare il sistema e il volto delle città in cui viviamo.
Si ha un concetto di società (peraltro termine astratto) come entità a sé, separata da ognuno di noi, dalla quale pretendere diritti e da usare come un limone da spremere. I doveri, come risposta al bene comune, il valore della legalità, la lotta al malessere morale… sembra che siano qualità d’altri tempi. Non ci sentiamo componenti fondamentali di questo sistema e non collaboriamo minimamente al cambiamento della qualità della vita. Eppure, se in ciascuno di noi manca questa presa di coscienza, nulla cambierà.
È urgente dare una virata a questo tipo di andazzo, cominciando a cambiare noi stessi: lamentandoci di meno e operando di più in prima persona. S. Filippo Neri, vissuto nella seconda metà del XVI secolo, a un suo amico che si lamentava che le cose nella società andassero male, dopo averlo ascoltato e averne convenuto, rispose: “Senti, amico mio, se vogliamo che le cose cambino, cominciamo a cambiare noi due”. Mi sembra una saggia risposta.
Dobbiamo mettere a frutto le nostre capacità intellettive e le potenzialità perché cominciamo a operare come se dall’esterno non ci venisse alcun aiuto. Dobbiamo cominciare a rispettare il territorio che ci circonda, sentendolo nostro (la spazzatura perché buttarla fuori i cassonetti? I fazzolettini perché per terra? I pacchetti di sigarette perché fuori il finestrino? Perché non metterci in fila come gli altri, piuttosto che fare i furbi? Perché passare col rosso ai semafori o posteggiare fuori le strisce o in doppia fila? Per citare alcuni esempi). Questo non è individualismo ma contributo personale offerto per il bene di ognuno e di tutti. È creare ordine, pulizia, collaborazione, sviluppo…
Bisogna imparare, oggi più di ieri, il senso di appartenenza: alla famiglia, alla scuola, alla casa, alla strada in cui viviamo, al quartiere, alla città, alla nazione, al mondo intero, rispettando le identità degli altri. A proposito di scuola, Don Lorenzo Milani aveva fatto scrivere su un cartello all’ingresso della scuola di Barbiana “I care” «Mi importa, ho a cuore» (in antitesi al «Me ne frego» di derivazione fascista). La frase riassumeva le finalità educative di una scuola orientata a promuovere un senso civile e sociale nell’alunno; si lotta così contro una società priva di formazione e orientata verso la massificazione e l’assuefazione.
E poi, quando siamo chiamati a dare il nostro contributo elettorale: perché dobbiamo svenderci al primo offerente (a chi la spara più grossa!), piuttosto che prendere coscienza per chi votare, sulla base della sensibilità e dell’impegno concreto di chi si candida? La campagna elettorale non si fa nelle due settimane che precedono il voto ma negli anni precedenti. Il candidato che si presenta all’ultimo momento e fa apparire di essere il salvatore della Patria senza avere interessi per la società e capacità amministrative non deve essere votato. Dove sono questi candidati, durante il loro mandato o al di fuori di esso, quando la gente dei quartieri poveri sono senza mangiare, hanno pochi servizi sociali, hanno poco confronto con la cittadinanza e vivono di espedienti? Solo durante la campagna elettorale ci si ricorda di loro, magari perché nell’ultima tornata non sono andati a votare, mettendo a segno una loro forma di protesta? Eppure assistiamo a candidati che si presentano perché senza lavoro, senza alcuna conoscenza di come amministrare e senza alcuna capacità di dialogo, di come relazionarsi con la cittadinanza.
I cittadini, dal canto loro, avvicinino e invitino, nelle settimane e mesi precedenti, i candidati di diverse estrazioni e sentano quali sono i loro programmi, quale impegno dimostrano e quali qualità hanno per rappresentarli. Se sono inetti, scartiamoli, senza mezzi termini. E se votiamo l’amico o il parente senza programmi e capacità, non ci lamentiamo, poi, di come vanno le cose.
Durante la candidatura, partecipiamo attivamente alla vita della città, per sapere come stanno andando le cose e prepariamoci così alle prossime tornate elettorali. Si governa anche senza alcun titolo o mandato, segnalando o sollecitando chi amministra a focalizzare i bisogni dei cittadini e criticando il loro operato, sempre nel rispetto della persona.
Ormai, piuttosto che guardare alle ideologie, osserviamo come si comporta chi ha ricevuto una delega e abbiamo il coraggio di dire in faccia che la politica non è per lui e vada a fare altro. Chi ha cambiato, ad esempio, più volte casacca partitica pur di essere eletto, o chi l’ha fatto appena eletto o durante il mandato, non rispettando la volontà degli elettori (piuttosto si dimetta), costui non è moralmente credibile e non va rieletto. Questo è amore per la città e per il bene comune.
O si sente la società come parte da servire e da promuovere o tutto il resto è interesse personale camuffato da servilismo e pseudo tornaconto collettivo.
Salvatore Agueci
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