Inserita in Cronaca il 26/09/2013
da Marina Angelo
Venticinque anni dopo, Mauro Rostagno ricordato a Valderice
Per l’ennesimo giorno, in questa terra di Sicilia, corre il dovere di ricordare un uomo ucciso dalla mafia. Oggi è quello di Mauro. Dalla sua uccisione, anche se nessuna sentenza ancora ne certifica la mano mafiosa, come ha voluto sottolineare questa mattina sotto il sole ancora caldo di settembre, Giorgio Zacco, presidente dell´associazione “Ciao Mauro”, sono passati venticinque anni. Ma la mafia non vince.
Sulla stele eretta a Lenzi dove il sociologo e giornalista è stato crivellato in un agguato si legge che Mauro Rostagno è vittima di mafia. Lo è stato. E lo è. Non solo per l’opinione pubblica ma, anche per le istituzioni che hanno permesso quella scritta prima di un verdetto. (Il processo, infatti, è tuttora in corso). Ed erano in molti i presenti alle commemorazioni a Lenzi prima e al cimitero di Ragosia, a Valderice poi. Un colpo d’occhio che ha fatto riflettere sul cambiamento è sicuramente stato vedere la grande partecipazione di giovani.
E’ su questo punto che si è soffermato il sindaco di Valderice, Mino Spezia, mentre deponeva la corona di alloro ai piedi della stele eretta proprio lì dove Mauro venticinque anni fa veniva trivellato. Oggi uno sguardo al futuro per una società migliore era sotto gli occhi di tutti.
Era sintetizzato dai giovani bambini della scuola primaria “Dante Alighieri” e dell’istituto comprensivo “Mazzini”.
«I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo» lo ha detto con Sandro Pertini il sindaco di Valderice Mino Spezia sottolineando l’importanza del cambiamento culturale e della denuncia.
Ad unire, poi, Trento a Trapani in bicicletta nel ricordo di Mauro è stato Antonio Marchi, ex membro di Lotta Continua. Per la terza volta "nel ricordo dell´impegno e della storia di Mauro" sono state le sue pedalate. Intensa e ricca di emozioni, infine, è stata la cerimonia al cimitero di Ragosia, a Valderice. Organizzata dall’associazione “Ciao Mauro”, che all’interno del suo sito ha pubblicato alcune interviste di Rostagno realizzate ed andate in onda su RTC, sono stati gli artisti trapanesi Tiziana Ciotta, Marco Marcantonio e Giuseppe Allotta. Tra musiche e canti, l’interpretazione di Tiziana Ciotta di “Un Seculu di Storia” di Ignaziu Buttitta” ha lasciato tutti con qualcosa su cui riflettere, di seguito il testo… Accuso i politici di oggi e di ieri: Crispi e compagni, predicatori della monarchia, beccamorti e falegnami che inchiodarono la Sicilia viva alla croce. Accuso i Savoia, i primi e l’ultimo re e imperatore, fascista e italiano, incoronato di medaglie strappate con il sangue dal cuore delle madri. Un secolo di guerre, un secolo di stragi: ci sono ossa di siciliani sotterrate nei deserti, nella neve, nel fango dei fiumi: c’è sangue di zolfatari, di zappatori, di madri scheletri e bambini uccisi nelle piazze della Sicilia. Non hanno voce e gridano gli ammazzati del ’93 con le pietre nelle tasche e la fame nelle pance vuote. Non hanno voce e gridano con il collo sotto i piedi dei baroni, con le ossa storcigliate dal lavoro; con la lingua di cani e il fiato ai denti. Tre giorni di macello di mortòri e beccamorti di lamenti e pianto nelle case dei poveri. Ci fu carne a buon prezzo sulle tavole dei baroni ; a buon prezzo per i sovrani di Roma; a buon prezzo per Crispi, macellaio di Corte; e Lavriano generale e sicario pagato a giornata. Li abbiamo qui ancora qui con le stesse facce e il cuore di selvaggi gli scanna-popolo; gli lecchiamo i piedi, gli diamo il voto, le unghie per scorticarci, la corda per impiccarci; la mazza e l’incudine per romperci le ossa. L’abbiamo qui ancora qui la mafia, seduta sui banchi degli imputati a dettare legge; a scrivere sentenze di morte con le mani che sanguinano. Li abbiamo qui i compari della mafia con le mani pulite, i fabbri di chiavi false, gli spoglia altari con la croce sul petto; dove posano i piedi secca l’erba, secca l’acqua spuntano spine e lacrime per la Sicilia. Li abbiamo qui gli affamati del potere; gli affamati di carne cruda, che credono la Sicilia un porco scannato e le spolpano le ossa. Se sei siciliano alza il braccio, apri la mano: cinque bandiere rosse, cinque! Accendi la polveriera del cuore! Se sei siciliano fatti la voce cannone, il petto carro armato, le gambe cavalli di mare: annega i nemici della Sicilia! Li abbiamo qui e cantano gli usignoli ammaestrati che aggiungono lagrime d’inchiostro alle lagrime della Sicilia, e stornellano il miserere a gloria dei padroni. Cantano odi al sole al cielo al mare alla zagara, e portano la Sicilia sul trono col velo nero di mal maritata. Il forno avvampa e buttano cenere a palate, incapaci d’impastare i cuori dei siciliani e farne uno a tre punte tredici volte più grande della Sicilia. La Sicilia non ha più nome n´ casa e paese; ha i figli sparsi per il mondo sputati come cani, venduti all’asta: soldati disarmati che combattono con le braccia. Con le braccia i rami verdi della Sicilia rimescolano la terra, rompono le zolle, seminano e fanno orti e giardini. Con le braccia, fabbricano palazzi, costruiscono scuole, ponti, officine e aeroporti. Con le braccia, le api da miele della Sicilia aprono strade, perforano montagne, svuotano la pancia della terra. Con le braccia, i soldati senza patria, gli stracciati, le carni senza lardo vestono d’oro i porci di fuori. Li chiamano terroni, zingari, piedi fetenti; e hanno i figli e le madri che contano i giorni con gli occhi bagnati; e questo cielo che bacio, e questa terra che tocco e mi canta nelle mani; e secoli di civiltà sotto i piedi. La Sicilia non ha più nome; ma milioni di sordi e di muti sprofondati in un pozzo che io chiamo e non sentono, e se allungo le braccia mi mordono le mani. Io gli calerei le corde delle vene, le reti degli occhi per tirarli dal pozzo; perch´ qui sono nato e parlo la lingua di mio padre; e i pesci gli uccelli il vento, pure il vento! entra nelle orecchie e ciarla in siciliano. Qui sono nato, e se mi bacio le mani bacio le mani dei miei morti; e se mi asciugo gli occhi asciugo gli occhi dei miei morti. Qui sono nato, allattai nelle mammelle di questa terra, le succhiai il sangue; se mi tagliate le vene, vi bruciate le mani! Non è vero che amiamo la Sicilia se abbiamo la storia nel pugno e la soffochiamo; non è vero se accendiamo il fuoco e lo spegniamo; non è vero nemmeno se stiamo un giorno liberi e per cent’anni servi. Non chiediamo perdono alla storia ora che abbiamo dimenticato i martiri di tutti i tempi che misero il collo sotto la mannaia senza piangere; Di Blasi, uno! Ora che abbiamo dimenticato i torturati nelle galere, i condannati a vita, gl’impiccati, e gli arrostiti vivi nelle piazze. Pietre e fango per chi sopporta la miseria, pietre e fango per chi batte le mani ai potenti, pietre e fango per chi non si mette il collo nella forca della libertà: lo dico ai siciliani e mi scoppia il cuore! E fu ieri, (la data non conta) io vidi piangere le madri nel Piano di Portella, e Saveria Megna inginocchiata sull’erba parlare con il figlio ammazzato. Lei lo vedeva, io no: il pazzo ero io se dopo vidi uscire dalle fosse tutti i morti per la libertà della Sicilia: vivi a migliaia a marosi, e il fuoco negli occhi! Dammi la mano Cola Lombardo, (io parlavo con lui!) straccia la tua camicia, gli dissi, fammi vedere il petto bucato dalle pallottole italiane. A Bronte, gli dissi, nel Piano di San Vito, dopo cent’anni chi passa sente ancora la tua voce: muoio per il popolo! Raccontami la storia Turiddu Carnevale, (io parlavo con lui!) figlio dell’inferno e del paradiso, raccontami la storia! In questo pugno c’è la morte, ti dissero; in questo pugno i denari, ti dissero; e tu: la morte, la morte! e gli torcesti il pugno. L’indomani a Sciara i compagni lo portavano a spalla: quattro, sudati, un passo dopo l’altro. Di colpo la cassa diventò leggera, gli scappava dalle mani: il morto non c’era nella cassa, camminava in prima fila fra le bandiere rosse; la testa, toccava il cielo! Chi cammina curvato torce la schiena, se è un popolo torce la storia.
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