Inserita in Cultura il 25/12/2020
da Direttore
La capacità umana di produrre simboli è un processo complesso, fortemente dipendente dal contesto e di antichissima data.
Sin dagli albori della propria esistenza, l’umanità ha fatto largo uso dei simboli, ovvero di quei segni che indicano idee generali non immediatamente visibili nell’ambiente circostante, ma non per questo assenti. Come l’antropologo statunitense Clifford Geertz afferma, infatti, l’immaterialità di un concetto non è meno concreta di «rocce e cascate[1]» e, per tale ragione, è capace di influenzare scelte individuali e di gruppo. Già durante il Paleolitico, dunque, L’Homo erectus è Homo symbolicus[2], che utilizza immagini ed oggetti per rendere presenti e più comprensibili nozioni astratte, frutto di elaborazione mentale.
Si pensi, a tale proposito, ad un albero. Esso non è soltanto quell’elemento naturale di cui tutti possono fare esperienza direttamente, ma può rappresentare la vita, la discendenza o l’appartenenza a seconda del luogo in cui si trova. Allo stesso modo, due aste poste in posizione perpendicolare tra loro potranno richiamare alla mente la somma matematica o la fede cristiana, in relazione al fatto che si trovino su un libro di algebra o sull’altare di una chiesa, seppur all’interno della stessa epoca e della stessa società. Anche il linguaggio è un sistema di simboli, che permette agli individui di comunicare, grazie alla scelta convenzionale e condivisa di un nome per ogni entità, concreta o astratta che sia; o ancora il denaro è un simbolo che indica un valore monetario al di là della filigrana di cui è composto. In questi come in altri casi, il potere metaforico di ciò che si ha davanti è tale che difficilmente si riuscirà a guardarne l’aspetto puramente ed esclusivamente materiale: nell’immaginario collettivo, una banconota non equivale a un semplice pezzo di carta.
Figura 1. Simboli universali con più significati.
Sebbene, come detto, uomini e donne inizino ad usufruire dei simboli millenni fa, questa attitudine è tutt’ora parte integrante del nostro modo di interagire. Nella società globale, gli individui sono sempre più interconnessi: parti lontane del pianeta possono essere raggiunte in tempo reale tramite gesti quotidiani, talmente semplici da sembrare ovvi. Man a mano che gruppi differenti con lingue differenti entrano in contatto tra loro, diventa più pressante la necessità di trovare forme di comunicazione generali, veloci e comuni.
Un esempio lampante è l’utilizzo delle emoticon nella messaggistica istantanea. Questo tipo di interazione è piuttosto recente, ma nell’ultimo ventennio si è diffusa a macchia d’olio. Raramente, infatti, si incontra qualcuno che non l’abbia mai usata o non ne abbia mai sentito parlare. L’origine di tale particolare sistema di simboli risale al 1982, quando l’informatico Scott Fahlman, docente alla Carnegie Mellon’s School of Computer Science[3], utilizza la punteggiatura in modo creativo per riparare alla mancanza di intonazione della scrittura. Nonostante, infatti, punti esclamativi, punti interrogativi, virgolette e così via siano pensati per esprimere le emozioni umane, non è sempre possibile comprendere lo stato d’animo di chi scrive. Ciò, in molti casi, può dar vita a incomprensioni e fraintendimenti tali che l’ironia possa essere scambiata per rabbia o un consiglio possa essere letto come un ordine perentorio. Nella comunicazione vis a vis, d’altronde, vari elementi assenti nella scrittura, come la gestualità, l’espressione del viso o il tono della voce, vengono elaborati anche inconsapevolmente ed aiutano a decifrare le intenzioni di chi parla.
Figura 2. Emoticon di WhatsApp.
L’essere pervenuti a un linguaggio scritto universale apre nuove frontiere, non solo perché risolve alcuni inconvenienti che si verificano nell’interazione a distanza, ma perché si tratta di segni che possono essere compresi su larga scala, anche da parlanti lingue differenti. Questa facilità di comunicazione, però, richiede un prezzo da non sottovalutare. Innanzitutto, per quanto generale possa essere un’emoticon, ogni società la interpreta secondo il proprio bagaglio culturale e, di conseguenza, lo stesso simbolo non ha necessariamente per tutti lo stesso significato; in secondo luogo, trattandosi di segni generali essi tendono a indicare per sommi capi le intenzioni di chi scrive, senza rendere conto delle sfaccettature insite in ogni cosa, materiale o immateriale.
I simboli, come ogni strumento umano, dunque, dovrebbero essere valutati apprezzandone le componenti che contribuiscono al miglioramento del vivere comune e cercando di non trascurare gli effetti negativi, più o meno indesiderati. La messaggistica istantanea, infatti, resta il prodotto della mente di qualcuno e non può essere considerata totalmente ingenua o neutrale. Cosa dire, ad esempio, di tutte quelle emozioni umane che non hanno ancora un simbolo che le indichi sulla tastiera?
Per quanto la velocità di comunicazione sia divenuta un aspetto imprescindibile del nostro tempo, sarebbe opportuno concedersi il lusso di una comprensione dell’altro – e di se stessi – più approfondita. L’istantaneità di un messaggio non necessariamente corrisponde al miglior mezzo di interazione, così come metafore, slogan e frasi ad effetto non dovrebbero rappresentare lo strumento privilegiato attraverso cui informare e informarsi.
Resta, indubbiamente, la consapevolezza che, attraverso il simbolismo, gruppi e individui danno forma concreta a ciò che ritengono importante. Per tale ragione, ieri come oggi come domani, questa forma di comunicazione in continua evoluzione toccherà nuove frontiere, ora avvicinando ora distanziando donne e uomini di tutto il pianeta.
Maria Rosaria Di Giacinto, 24.12.2020
[1] Geertz C. (1983), “Art as a Cultural System”, in Local Knowledge. Further Essays in Iterpretive Anthropology, 94-120, Basic Books, New York.
[2] Buttitta I. (2008), “Verità e menzogna dei simboli”, Meltemi, Roma.
[3] Studio condotto da Mike Jonesun nel febbraio 2002.
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