Inserita in Un caffè con... il 01/02/2018
da Direttore
Giù la maschera! L’integrità di ogni uomo sia palese a tutti
Spesso ostentiamo una maschera e dietro di essa ci trinceriamo perché non abbiamo il coraggio delle nostre azioni, o meglio, perché esse appaiano non legate al soggetto che li compie: chi compie l’azione non si vede, ma l’atto deplorevole sì.
Nella quotidianità, preferiamo assumere varie identità, a seconda il ruolo che ci accolliamo e con chi abbiamo a che fare. «C’è una maschera – dice Pirandello - per la famiglia, una per la società, una per il lavoro, e quando stai solo resti nessuno». E Alphonse Karr dice che «Ogni uomo ha tre personalità: quella che mostra, quella che è e quella che crede di avere».
Se questo avviene nella maggioranza delle persone, «Imparerai - dice ancora Pirandello - a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti», in parecchi altri casi il fenomeno assume una valenza amplificata in categorie d’individui che, per mestiere, hanno responsabilità istituzionali e preferiscono operare diversamente da ciò che sono per non farsi vedere e per abbindolare più facilmente le persone, come se questo fosse sinonimo di de-responsabilità: è immorale.
Il termine ‘maskara (fuliggine, fantasma nero), probabilmente di origine etrusca, è legato alla persona e indicava la maschera teatrale. Nella tragedia greca si assumeva con quella maschera un finto volto per non farsi riconoscere, allo scopo rituale, di divertimento o di spettacolo; l’attore si attribuiva la personalità di chi stava interpretando, a testimoniare che la vera identità di ogni individuo è sempre nascosta sotto ciò che appare, per l’appunto sotto una maschera.
Nell’anonimato si può dire ciò che si vuole, solo che nella ripetitività dell’azione la faccia diventa “di bronzo”, non ci si fa più caso, come l’aspetto del contadino, abituato al sole e alle intemperie, il suo volto diventa scuro e la pelle dura come quella dei coccodrilli. Si diventa insensibili alle sofferenze dell’umanità senza tener conto del rischio che si corre: «Sappiamo – diceva Patrick Rothfuss - quanto può essere pericolosa una maschera. Tutti diventiamo quello che facciamo finta di essere».
I nostri progenitori, fino a quando aderirono alla Verità, accettando il volere di Dio, erano nudi e non si accorgevano di esserlo, il loro agire era trasparente, ma dopo essersi ribellati a Dio, si accorsero della loro nudità e cercarono di coprirsi, si misero una ‘maschera’ perché avevano paura e cercarono di nascondersi dal volto di Dio e dagli sguardi della creazione stessa: quella nuova condizione li accompagnò per tutta la vita. Ancora oggi, quando commettiamo un’azione contraria alla morale naturale, ci nascondiamo per paura che scoprano le malefatte.
Tutta la storia personale diventa una comparsa, pensando ognuno di avere potere e autorità di divenire il regista principale della propria e dell’altrui vita. Diceva Erasmo da Rotterdam che «Tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico».
L’inganno diventa il filo conduttore per molti esseri umani, proprio come fa la cicala che, anziché lavorare sodo durante l’estate, procurandosi il vitto per l’inverno come la formica, preferisce cantare e dimostrare di essere felice, approfittando del periodo favorevole. Ma «Puoi indossare una maschera e dipingerti la faccia. Puoi persino dire di appartenere al genere umano, puoi indossare un colletto e una cravatta ma c’è una cosa che non puoi nascondere: è quando tu sei marcio dentro» (John Lennon).
La maschera per quanto sia ben fatta e mantenuta, si riesce a distinguerla dal volto, ci sono spesso le finestre dell’anima, gli occhi, dai quali traspare la nostra vera identità e sono essi che indicano, con un po’ di attenzione, il tipo di personalità che sei e il grado della tua falsità. E poi, si perde sovente il senso della vergogna e del pudore. Ci si dimentica della storia, quella esterna e soprattutto interna, della nostra coscienza, ambedue attente segretarie dei nostri atti le quali trascrivono il ‘verbale’ con minuzie di particolari.
E allora, rifacciamoci a un principio generale che è quello della schiettezza. Ritorniamo al vero concetto di verità Adequatio intellectus et rei (adeguazione dell’intelletto alla cosa) e smettiamola di prendere in giro gli altri come se fossero dotati di stupidità e di poco intelletto. Dice Gesù: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 21, 37). Nella comunicazione il nostro linguaggio sia limpido (anche se carico di humor), comprensibile da tutti e mai fatto di doppi sensi, usando il politichese, il giuridichese, l’aziendalese o il socialese.
Impariamo a operare con purezza di spirito perché mai abbiamo a vergognarci delle azioni e il cielo azzurro copra con nitidezza il nostro capo, come il sole traspaia con brillantezza nell’anima e sul nostro volto di uomini creati a immagine e somiglianza di Dio. «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me» è l’epigrafe che il filosofo Kant volle fosse scritta sulla sua tomba a imperitura memoria.
Salvatore Agueci
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