Inserita in Cultura il 08/04/2015
da REDAZIONE REGIONALE
L´Italia brucia di Vito Bongiorno
È un’Italia arsa dalle fiamme quella messa in mostra da Vito Bongiorno a Roma. Attingendo ai temi a lui cari, l’artista siciliano (Alcamo, 1963), novello Menenio Agrippa, ricorre agli organi umani per focalizzare lo stato di crisi in cui versa il Belpaese. Un manipolo di opere di carbone rimandano così all’assenza d’amore verso il prossimo (un cuore combusto), alla mancanza di cultura (un cervello annerito), all’inquinamento (i polmoni affumicati) e, soprattutto, all’inaridirsi della fonte della vita stessa, visivamente resa tramite un utero carbonizzato. A simboleggiare una crisi del nascere d’ogni speranza, quasi, non solo il venir meno dell’amore per la vita, negata dall’abbandono di un infante in uno sterrato come dalle stragi per (mala)fede che fanno tornare l’orologio della storia indietro di secoli, quanto proprio la difficoltà a percepire che dall’umano possa ancora sorgere altro che odio e cenere, il nulla. Su tutte, campeggia al centro della galleria Santandrea uno Stivale ormai carbonizzato, epicentro dell’esposizione e della poetica di questo nuovo ciclo. Atro che blu Klein. Da tempo la cifra stilistica dell’artista venuto bambino nella città Eterna, sull’eco delle scosse che resero tristemente noto il Belice e rasarono Gibellina al suolo, ormai insediatosi stabilmente sul litorale romano di Maccarese, vira verso tonalità cupe, figure carboniche, nere e truci come la deriva del Belpaese. Così, nel suo rimando apocalittico, l’indirizzo preso da Bongiorno pare negare quanto asseriva la buonanima di Costanzo Costantini, storica firma della terza pagina del Messaggero, che definendolo l’Yves Klein italiano connota il suo segno di leggerezza, e dare ragione piuttosto a Daniele Radini Tedeschi. Che trova nell’assenza d’ironia, di levità appunto, la distanza maggiore tra l’eclettico artista francese noto per il suo blu oltremare e il versatile artista siculo-romano il quale, abbandonati il blu e la performing art in plen air che pure lo differenziava in toto dal suo maestro, si fa con le sue opere specchio dei guasti d’un paese – mondo – allo sbando. Fedele, in ciò, all’etica di un’arte che può, se non sanare, almeno non rinunciare a denunciare le storture del proprio tempo, Bongiorno sconta così una perdita di soavità e di vivacità, di colore e calore se vogliamo, facendosi nell’incupirsi dei toni e dei pensieri cartina di tornasole di quello che l’abate Guattani definì il Belpaese. Ma la denuncia non implica radicale sfiducia, mesto lasciarsi andare, tutt’altro. Questo farsi portavoce di un bujore dell’anima e dei tempi non inibisce l’auspicata rinascita. Così Bongiorno-Agrippa pare voler ricordare come solo affondando a piene mani nel cuore e nel cervello della nostra storia, dentro noi stessi, si possa ridare voce e memoria a ciò che di buono è stato e può ancora essere. E, levando l’occhio sul desolato niente sopravvissuto all’incendio, gettare l’animo oltre lo sguardo del momento attuale per ridare unità di senso e futuro a una storia comune, all’umano sentire. Far sgorgare così, grazie agli umori fecondi del nostro vissuto, nuova linfa vitale sotto la pianta decorticata dell’Italia bruciata, annerita dal fumo delle sue nefandezze. Un nuovo colore, via dal fumoso presente, dal nerocarbone, oltre il blu.
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